I Medici e la Caccia

Ultima modifica 11 dicembre 2021

Per i Medici l’arte della caccia era un’importante tradizione di famiglia.

Se per Lorenzo il Magnifico costituiva una passione, per Cosimo I incarnava una caratteristica imprescindibile di tutta la stirpe medicea.

Lorenzo il Magnifico amava cacciare nei boschi del Mugello, una delle zone di caccia preferite dai Medici, in quanto luogo di antiche origini della famiglia ricco di selvaggina. Nel Quattrocento la tradizione di caccia rientrava nella concezione di gioco divertente e di piacere da gran signori, che si addiceva al principe così come la festa, il ballo o il banchetto: il piglio autoironico con il quale Lorenzo il Magnifico stesso ne parlava, svelava lo spirito ludico con il quale venivano vissute le imprese venatorie.

L’arte della caccia veniva trasmessa di padre in figlio: era educazione e ritualità. Nell’inseguimento delle prede i riflessi si facevano pronti e si formavano carattere, resistenza alla fatica, consapevolezza delle proprie decisioni e compassione verso i più deboli. È così che la passione venatoria arrivò dai primi Medici sino ai successivi granduchi. 

Cosimo I aveva lo spirito venatorio nel sangue: gli derivava in linea diretta dal padre, Giovanni dalle Bande Nere, che nella sua residenza del Trebbio manteneva addirittura un allevamento di cani da caccia di varie razze. Si raccontava che quando Cosimo I venne incaricato di governare Firenze, si trovava a caccia nei possedimenti mugellani: “Così uccellando e pescando fu chiamato al principato…”.

Con Cosimo I nacque il modello del re cacciatore. La passione diventava prerogativa: quella che fino al secolo precedente era una dote importante diventava una dote necessaria, tanto quanto la giustizia. Un sovrano che non avesse saputo dimostrarsi guerriero sconfiggendo un degno antagonista animale, non avrebbe mai potuto porsi come primus tra i suoi cortigiani.

Si rese progressivamente necessaria la privatizzazione di aree del territorio con lo scopo di preservare la fauna, in modo tale che fosse sempre a disposizione dei signori per le loro battute di caccia: vennero istituite le bandite, le antenate delle odierne riserve di caccia. Tra la fine del ‘500 e la metà del ‘600 erano estese a buona parte del territorio granducale. All’interno dei confini vigevano limitazioni di caccia molto restrittive per specie e luogo, soprattutto per la popolazione comune che non aveva più libero accesso alla caccia. Tutto ciò sottolineava il carattere di privilegio che l’attività venatoria andava assumendo.

Uno dei motivi per i quali Cosimo I si avvicinò così a Cerreto Guidi, tanto da voler fortemente la costruzione di una propria residenza in queste terre, fu l’abbondanza di cacciagione e di volatili nei boschi attorno a Cerreto Guidi.

La Palazzina dei Cacciatori divenne il luogo dove soggiornava il personale incaricato alla preparazione delle battute di caccia, che oltre che spettacolari dovevano rispettare un preciso rituale. Il giorno precedente il capocaccia perlustrava aree diverse, con “un cane di buon fiuto”, per accertarsi quale fosse più ricca di selvaggina, e l’indomani guidava i partecipanti nella zona dando inizio alla battuta. I membri della corte, sia a piedi che a cavallo, avevano trombe, corni e musiche per costringere la selvaggina a percorsi obbligati e spingerla verso i cacciatori. Tutti seguivano i comandi del capocaccia: cacciatori, mute dei bracchivaccaritirinnanzicavallaribufalari e “gente disutile”. La cerimonia della “curea” sanciva la fine della battuta; il rito prevedeva la spartizione delle prede abbattute tra tutti i signori e non solo.


Quanto sono chiare le informazioni su questa pagina?

Grazie, il tuo parere ci aiuterà a migliorare il servizio!

Quali sono stati gli aspetti che hai preferito?
1/2
Dove hai incontrato le maggiori difficoltà?
1/2
Vuoi aggiungere altri dettagli?
2/2
Inserire massimo 200 caratteri
È necessario verificare che tu non sia un robot